In Mont

E’ la parola comune a tutti i paesi del Parco, per indicare l’attività malghiva che si svolgeva nel periodo estivo, in pascoli di media ed alta quota ( 1000 – 2000 metri). Ogni famiglia possedeva del bestiame, da uno o qualche decina di capi. Fin da tempi lontani si è praticato l’alpeggio, per poter sfruttare al massimo il territorio: andare “in mont” significava usufruire di una parte di territorio che altrimenti sarebbe stato inutilizzato e allo stesso tempo permetteva di provvedere al foraggio per la brutta stagione.
Oggi sono pochissime le malghe monticate, dopo la guerra lentamente l’attività è andata morendo, in seguito al rapido e continuo processo di industrializzazione che ha portato all’abbandono dell’allevamento del bestiame.
Il Parco pone attenzione al recupero delle attività del passato ed in particolare a quella malghiva, fonte di guadagno per la gente di montagna ma anche esempio di come l’uomo viveva in armonia con la natura. Le casere, ristrutturate rispettando l’architettura spontanea ma con servizi moderni, sono una speranza che l’antico mestiere del malgaro non scompaia dalle nostre valli.

SITUAZIONE MALGHE

1903-‘11
Primo censimento a cura di Ionizzo e Marchettano per conto della Cattedra Ambulante di Agricoltura dell’Associazione Agraria Friulana: 267 le malghe registrate di cui 169 in Carnia, 45 in Canal del Ferro, 53 nei distretti di Maniago e Spilimbergo.

1915
In seguito al primo conflitto mondiale la gran parte delle 70 malghe lesionate o distrutte non viene ripristinata.

1938
L’indagine di Gortani, sullo spopolamento della montagna friulana, indica in 261 le malghe presenti: 164 in Carnia, 44 in Canal del Ferro, 13 in Val Canale e 40 nelle Prealpi Carniche. La prossimità del numero a quello di inizio secolo nasconde in realtà “una gravissima crisi, che si ripercuote sinistramente su tutta l’economia della zona”.

1940
Nel solo Friuli occidentale, alla vigilia della seconda guerra mondiale, sono attive 131 malghe, comunali e private.

1985
68 sono gli alpeggi attivi in Carnia, 17 nel Canal del Ferro e 6 nella Val Canale. Nel Friuli occidentale 28 le malghe monticate.

1998
104 gli alpeggi dell’intero territorio regionale.

La gestione degli alpeggi

Dal punto di vista giuridico-amministrativo le malghe del territorio del Parco sono di proprietà comunale. La malga viene affittata, tramite una gara d’appalto condotta con il metodo della “candela vergine”, al miglior offerente, normalmente per un periodo di nove anni.
Nel fornese la gestione è affidata a cooperative di allevatori.
Nell’avviso d’asta sono indicate le casere da monticare, il luogo, la data della gara ed il prezzo base da offrire.
Il Capitolato d’appalto regola il rapporto tra il malghese, il Comune e il proprietario del bestiame, indica diritti e doveri del malgaro nel rispetto delle norme forestali vigenti.
Il locatario – malghese deve operare per il mantenimento del territorio della malga attraverso l’estirpazione delle erbacce e lo spietramento del pascolo, provvede, a fine stagione, allo spargimento del letame. Cura la manutenzione dei fabbricati che costituiscono la malga. Prima dell’alpeggio si preoccupa del ripristino dei sentieri di accesso, sistemando i punti più impervi e pericolosi.
Il carico di bestiame della malga varia in rapporto alla grandezza del pascolo. Solitamente da 30 a 50 capi. Oltre ai bovini da latte ci sono la sterpa, la capra, la pecora e i maiali. Il numero si raggiungeva calcolando il valore delle bestie: due manze o quattro vitelli o dieci capre equivalevano a una mucca.
Nel fornese era tipico l’allevamento ovino, la capra la si ritrova presente fino all’inizio del Novecento e poi, forse anche in seguito alla legislazione che regolamentava il pascolo caprino, si ridusse a pochi capi. Attraverso il Giaf raggiungevano Val Menon, Val de Brica e per Val di Suola tornavano nella loro valle.
Le date per la pesatura del latte alla presenza dei proprietari del bestiame sono fissate in modo tale da determinare la parte dei prodotti spettanti in base alla quantità di latte: il giorno di San Pietro (29 giugno) e il 25 o 26 luglio. Queste pesature consentivano di fare una media della produzione complessiva: una infatti avveniva quando la vacca aveva una grande produzione di latte e l’altra quando il latte andava scemando poiché le mucche erano stagionate per il parto autunnale.
Una quantità di prodotti spettava al prete e alla fabbriceria da consegnare entro il 24 luglio, rispettando di anno in anno il turno delle casere.
Il periodo di monticazione era fissato da un’antica consuetudine: si saliva “in mont” il 7 giugno e si rientrava il 7 settembre.
Mentre il rientro è rispettato in tutti i paesi, la partenza era legata anche alle condizioni ambientali. A Cimolais, in Feròn, si saliva “in mont” il 13 giugno, nel fornese il 29 giugno, poiché le malghe erano ubicate ad una quota che oscillava tra i 1600 e i 1700 metri e c’era l’usanza di trasferire il bestiame nelle stalle che si trovavano a metà strada tra il paese e la malga.
Le malghe erano turnarie, una era più bassa e una più alta. In un primo periodo si sfruttava il pascolo basso (1000 – 1400 – 1500 m), per poi spostarsi anche con l’attrezzatura in quella più alta (1700 – 1800 m) e quindi ritornare nell’ultimo periodo alla prima. Questo consentiva di sfruttare comodamente un territorio più vasto e soprattutto di seguire la maturazione del foraggio.

TIPOLOGIA E ASPETTI TECNICI

Il termine malga indica un terreno di montagna utilizzato esclusivamente per il pascolo estivo, che presenta costruzioni proprie per l’esercizio dell’azienda.
Ubicazione e approvvigionamento d’acqua.
Si aveva cura di scegliere il luogo più sicuro, più ricco d’erba e più soleggiato, nei pressi dei corsi d’acqua, elemento di vitale importanza soprattutto per la bestia.
Mediante un sistema di tronchi di larice incavati l’acqua veniva condotta davanti alla casera e raccolta in un “laip” (tronco incavato). Vi erano inoltre le lame, ossia avvallamenti naturali (o realizzati dall’uomo) del terreno, battuti e impermeabilizzati con argilla per l’approvvigionamento dell’acqua piovana.
In Borgà, malga ertana priva d’acqua, si trasportava con la slitta la neve perenne degli anfratti nei pressi dei “Libri di San Daniele” e, in apposite vasche adiacenti alla casera, si attendeva lo scioglimento.

Accessi

La malga era servita da una rete di sentieri che ne garantivano l’attività:
Sentieri principali, sicuri per le bestie, talora con muretto di protezione (come in Col d’Aniei);
Sentieri secondari, ad uso esclusivo del pastore, più veloce e ripido;
Sentieri di collegamento tra una malga e l’altra e tra le zone dello stesso comparto malghivo

Materiali d’uso

I muri erano realizzati in pietra locale, legata con calce prodotta nelle fornaci realizzate nei pressi della casera.
A Erto le casere erano realizzate in muratura a secco, con pietre squadrate a mano, mentre le schegge ottenute facevano da legante, riempiendo gli interstizi.
Piccole feritoie costituivano le finestre. Il tetto era costituito da scandole, assi in legno di larice lavorate sul posto (più recentemente da lamiera).
Solo in Andreis, la copertura era diversa: si utilizzava la festuca, pianta della famiglia delle graminacee che cresceva spontanea sui pascoli e che opportunamente battuta ed affastellata, garantiva il tetto anche per cento anni.
Le prime casere erano costituite da più locali separati: in uno si viveva e si lavorava il latte (casera) e nell’altro si conservavano i prodotti (caserino). Si ricorda a Cimolais che c’era un terzo piccolo cassonetto dove si centrifugava la panna. Queste costruzioni erano casoni in tronchi di legno, incastrati con chiodi sempre di legno. Poco distante c’era la tettoia ad un solo piovente, ricovero per le bestie da latte, mentre le manze erano lasciate libere o rinchiuse in un recinto (la mandra). Per le pecore si usava anche un recinto mobile che veniva spostato giornalmente in modo da distribuire razionalmente il concime.
Le strutture che ritroviamo oggi, risalgono agli anni venti del ‘900 e presentano caratteristiche comuni. La casera è composta da un unico edificio, diviso in più locali.
In quello più spazioso si viveva, si lavorava il latte, si trascorrevano i momenti liberi, si cuoceva il magro pasto con l’immancabile polenta. Due scalini in pietra ti conducono nel casel, il locale più fresco e ben areato dove trovavano posto i prodotti da conservare e si sistemavano gli attrezzi.
Una scala in legno permette di accedere al piano superiore, situato sopra al casel. Quattro tavole in legno costituiscono il pavimento, mentre il giaciglio è fatto con erica e foglie secche, poste sopra a rami di pino mugo.
Nel fornese ritroviamo una tipologia completamente diversa: grandi stalle che si snodano intorno ad un ampio spazio quadrato.

L’interno della casera

L’interno della casera era molto semplice. Il pavimento era costituito dalla terra stessa, non battuta se non dallo scalpiccio dell’uomo, impregnata di siero e dove regnava il fumo. Il semplice arredo era costituito da qualche sgabello in legno. In un angolo predominava la “mussa” (termine comune che indica tutto ciò che porta). Si tratta di un asse girevole, dove veniva appeso il grande paiolo che in questo modo poteva essere tolto e rimesso sul fuoco, a seconda del bisogno, durante il processo di lavorazione del formaggio e della ricotta.
L’illuminazione avveniva tramite il lume a candela o ad olio e petrolio e, andando indietro nel tempo, con “l’alum”, cioè un ramo di conifera. Raramente c’era la necessità di un mezzo d’illuminazione, perché il fuoco riscaldava e rischiarava il locale ma soprattutto perché le giornate erano scandite dalla luce del sole. Al mattino ci si alzava all’alba e ci si coricava presto, dopo una giornata di duro lavoro.

Chi lavora in malga

  • Il malghese

Sovrintende all’attività dell’azienda, gestisce i pascoli e le mandrie monticate e assume il personale. Il giorno della partenza si avviava per primo, seguito dagli altri proprietari, ognuno con le proprie bestie o anche quelle di qualche amico. All’arrivo stilava l’elenco, distinguendo il bestiame per famiglia e controllando la marca su ogni collare.
La giornata iniziava di buon ora con la mungitura (operazione lunga e faticosa). Il lavoro era facilitato dalle bestie legate sotto la tettoia. Seduto su uno sgabello a un solo piede, adatto per trovare un giusto equilibrio in terreno sconnesso, il mungitore stringeva le mammelle a pugno, a tenaglia, a pizzicotto a seconda della sua abitudine o alla grandezza delle mammelle. Si occupava della lavorazione del latte, per ottenere formaggio, ricotta e burro.

  • Il pastore

Solitamente erano ragazzini, mandati bel volentieri in “mont” dalla famiglia per avere una bocca in meno da sfamare nei tre mesi estivi. Un paio di scarponi sono testimoni del loro incedere nei pascoli a custodire le bestie ma anche del loro guadagno: era infatti il compenso che ricevevano dopo tre mesi di lavoro.
Partivano al mattino, dopo aver aiutato il mungitore a pulire e a massaggiare le mammelle e, per tutta la giornata, sorvegliavano le bestie nei pascoli scelti giorno per giorno dall’esperto malghese. Questo bambino pastore scacciava la solitudine intagliando fischietti di legno e rompendo le pietre per poi ricomporle: il “puzzle” di sassi.
Un pastore particolare è il “pluovit” (= lavoro per la comunità) a Forni di Sopra. Il suo compito era quello del mantenimento dei pascoli mediante lo spietramento, la pulizia dei sentieri e delle vasche del letame. In genere erano due che svolgevano il lavoro per quattro malghe.

  • La portatrice

Una volta pronti, i prodotti dovevano essere portati a valle. Questo compito era affidato alle portatrici. Unica donna nel mondo maschile della malga, veniva pagata per trasportare le masserizie e i prodotti dal paese alla malga e da malga a malga, essendo turnarie. In salita riusciva a trasportare 40 kg e in discesa anche 50-60 Kg. Veniva infatti pagata in base ai chili trasportati. A volte lavoravano in cambio di latticini o per una monta di buoi. Il loro mezzo di trasporto era la gerla. Il burro solitamente era riparato dal sole col farfaraccio nel fornese o col pino mugo in Valcellina.

  • Il collare

Elemento comune a tutti i paesi del Parco, prima di partire, ogni proprietario di bestiame aveva cura di appenderlo al collo della bestia. Appeso ad esso il campanaccio risuonava con l’incedere della bestia e richiamava la gente del paese. Nei pascoli era importante quel suono perché avvertiva il pastore dove cercare le bestie che si erano allontanate.
I campanacci da pascolo erano più piccoli e più semplici, meno vistosi.
I campanacci da viaggio erano invece grandi, importanti, ne ritroviamo anche tre su uno stesso collare ed erano appesi alle mucche quando partivano per l’alpeggio e quando rientravano.
Soprattutto il ritorno era festa grande. La mucca più bella aveva l’onore di portare il campanaccio vistoso, le sue corna erano adornate di fiori. Il giorno della Madonna, l’8 settembre, si celebrava la festa del pastore: una messa, un pranzo e ad ognuno il dovuto compenso.

  • Caratteristiche e tecniche

Vi erano collari molto semplici, solo ad incastro, per le capre. Altri come quelli di Andreis decorati a intaglio con motivi floreali o geometrici. I collari sono l’espressione della creatività dell’uomo del tempo passato. C’erano abili artigiani del legno che li vendevano ma quasi ogni malgaro sapeva intagliarli e questo lavoro lo faceva durante l’inverno, in casa, ma anche in malga, nel tempo libero.
Si potevano usare vari tipi di legno (larice, faggio, pino mugo) ma quello più adatto e, per tradizione usato, era il maggiociondolo, un legno dolce e nello stesso tempo resistente.
Lo si poteva tagliare in qualsiasi stagione purchè con la luna calante e scegliere il tronco già in natura leggermente curvato, con un diametro di 8 – 10 cm e l’altezza di 1,20 m. Importante era poi tagliarlo dalla ceppaia perché lungo il fusto il legno si spezza più facilmente.
Con l’acetta si squadrava e si sgrezzava, lasciando alle due estremità e al centro uno spessore maggiore. In una estremità s’intagliava il maschio e nell’altra un foro a sua misura. Per asportare il legno interno si praticava un forellino. Con un ferro “al fer” da dolè si rifiniva lisciando le parti ruvide.
Per incurvarlo lo si immergeva nel siero bollente, rimasto dopo la lavorazione del latte e lo si piegava pin pian, premendolo contro il ginocchio. Con abilità e fantasia si decorava con motivi floreali o geometrici, incidendo col fuoco le proprie iniziali, come segno di riconoscimento. Si praticavano gli ultimi fori per appendere il campanaccio e per infilare la piccola chiave che assicurava una perfetta chiusura.