Centro visite di Poffabro (PN)

Centro visite di Poffabro (PN)

Orario di apertura

GENNAIO 2024

Da Lunedì 1 Gennaio a Domenica 7 Gennaio TUTTI I GIORNI 15.00-19.00

Sabato 13 e Domenica 14 Gennaio 15.00-19.00

MARZO - APRILE - MAGGIO 2024

Domenica 31 Marzo e Lunedì 1 Aprile 14.00-17.00

Tutte le Domeniche di Aprile e Maggio 14.00-17.00

Da Giovedì 25 Aprile a Domenica 5 Maggio TUTTI I GIORNI 14.00-17.00

GIUGNO 2024

Tutti i Sabati e le Domeniche 15.30-18.30

LUGLIO - AGOSTO 2024

Tutti i Sabati e le Domeniche di Luglio 15.30-18.30

Da Sabato 20 Luglio a Sabato 31 Agosto TUTTI I GIORNI 15.30-18.30

SETTEMBRE 2024

Domenica 1 Settembre 10:00-18.30

Domenica 8 Settembre 15.30-18.30

DICEMBRE 2024

Domenica 1 Dicembre 15.00-19.00

Da Domenica 8 a Martedì 31 Dicembre TUTTI I GIORNI 15.00-19.00

Il Centro visite

MOSTRE “IL CASEIFICIO DI POFFABRO” E “IN MONT – LE MALGHE DEL PARCO”

Il Centro visite di Frisanco è stato ricavato nello stabile dell’ex-caseificio di Poffabro.
La struttura, inaugurata nell’aprile del 1933, si articola ora in quattro sezioni: il caseificio vero e proprio al pianterreno; In mont – le malghe del Parco, gli aspetti naturalistici del Parco e la Val Colvera al secondo piano.
Al pianterreno, dopo un breve excursus sulla storia delle Latterie in regione, viene dedicato particolare interesse a quella di Frisanco, dai primi incontri alla costituzione della Società Latteria Sociale Turnaria di Poffabro-Casasola nell’ottobre del 1932, dall’inaugurazione dello stabile nel 1933, alla sua organizzazione e funzionamento fino alla seconda metà degli anni ’60.
La sala di lavorazione del Caseificio è stata mantenuta con gli originari macchinari ed attrezzi di trasformazione del formaggio (anni ’30) in cui si segnalano in modo particolare il sistema di funzionamento azionato da cinghie di trasmissione mosse da un motorino elettrico, le caldaie a sistema fisso per il riscaldamento del latte e il banco di pressa del formaggio con pesi mobili (il sistema friulano). Il piano superiore ospita una sezione introduttiva sull’ambiente del Parco, presentando gli aspetti geo-morfologici, vegetazionali e le specie animali e vegetali presenti nell’area protetta. Uno spazio speciale è stato dedicato alla Val Colvera che ospita questo Centro visite, ai suoi aspetti architettonico-paesaggistici e geologici.
La mostra permanente “In mont – le malghe del Parco” presenta l’interno della malga con riproduzione della mussa e di tutti gli utensili per la lavorazione e trasformazione del latte in formaggio, burro e ricotta. Una postazione multimediale raccoglie, invece, le attestazioni finora raccolte sulle casere esistenti (anche allo stato di rudere) nell’area Parco: una ricca realtà che è andata progressivamente riducendosi, ma che ha sempre rappresentato un’importante integrazione del reddito familiare.

Info e contatti
La Val Colvera

Terra di grandi tradizioni artigianali è raccolta tutta in Frisanco e nelle borgate di Poffabro, Casasola, Colvere, Pian delle Merie e Valdestali, dove l’architettura rurale è caratterizzata da case a tre o quattro piani con ballatoi in legno sostenuti da alti pilastri di pietra.

Dominata dall’imponente vetta del Monte Raut, la Val Colvera è percorsa dall’omonimo torrente che lungo il suo corso ha modellato le rocce in caratteristiche cavità come il Landri scur e il Landri viert e ha dato origine a una suggestiva forra denominata Bus del Colvera. Il comune è diviso in tante piccole borgate poste in prossimità dei corsi d’acqua o sui versanti a solatìo delle alture che caratterizzano la valle. La valle scavata dal Colvera si apre verso la pianura di Maniago con una caratteristica e suggestiva forra dalle pareti calcaree in alcuni tratti verticali.

CENNI STORICI

All’epoca medievale risalgono le prime notizie certe di Poffabro e Frisanco: in una sentenza del 1339 relativa ad una lite per confini, risultano già come insediamenti sorti su possedimenti dei consorti di Maniago e dei Polcenigo. Fabio di Maniago parla dell’origine di Poffabro, alle falde del Monte Raut sul lato sinistro del Colvera, da famiglie che avevano in locazione masi dei consorti di Maniago nella zona.

Frisanco avrebbe avuto un’origine analoga, dalle affittanza, vendite e permute effettuate nella zona dai conti di Polcenigo e dalle comunità di Fanna e Cavasso fino a tutto il Cinquecento. La frazione di Casasola invece era venuta a costituirsi a partire da alcune case sparse su un antico maso. Il toponimo è indicato per la prima volta nel 1436, mentre in un documento del 1624 si parla di quattro “Case sole”, tante quante i rami principali della famiglia Di Rosa lì stabilitasi. Nel 1644 Poffabro e Casasola si fusero in un’unica vicinia soggetta ai Conti di Maniago, mentre Frisanco rimase dipendente dai Conti Polcenigo.

Tutto il Sei-Settecento è scandito dalle liti tra Maniago e Poffabro per pascoli e diritti di fienagione, tra Poffabro e Casasola per il monte Radolin e così via, fra vicende che vedono sconfinamenti di pascoli, tagli abusivi di legname, furti di capre e foraggi, accuse e contraccuse. La fusione in un unico comune avvenne solo in età napoleonica (decreto del 28 settembre 1810): Frisanco (788 abitanti) diventa capoluogo, aggregando Poffabro e Casasola (insieme 617 abitanti).

ARCHITETTURA TIPICA E PAESAGGIO

L’architettura tipica costituisce il maggior valore paesaggistico-ambientale della valle, grazie al sapiente recupero effettuato in seguito ai danni provocati dal sisma del ’76. La pietra arenaria a vista, gli archi e i porticati, i ballatoi, i percorsi lastricati ed i mirabili modi di aggregazione degli edifici costituiscono un’affascinante testimonianza dei modi di vita e di tradizioni ormai generalmente scomparsi. L’architettura di prevalente carattere rurale, definita “spontanea”, presenta nella maggior parte dei casi un’aggregazione di edifici, derivata da motivi di comune sicurezza, di risparmio nella costruzione e di salvaguardia dei terreni coltivabili circostanti. Accanto ad alcune antiche, pregevoli, costruzioni a loggia, prevale nettamente l’edificato a ballatoio in legno con protezioni verticali, disposto ora a schiera aperta ora a corte. La complessità, che è derivata dal condizionamento morfologico dei siti e dai limiti della proprietà nell’evoluzione interna degli abitati, ha portato un notevole arricchimento dell’architettura, per effetto dell’unitarietà del linguaggio e dei materiali impiegati.

La ripetitività degli elementi architettonici (materiali, forma e disposizione dei vani, pendenza dei tetti ed altro) e la continuità della facciata fanno percepire l’ambiente come un tutt’uno. Nonostante ciò le diverse altezze degli edifici, le diverse estensioni delle falde dei tetti, le diverse lunghezze delle facciate, il loro disporsi quasi mai in allineamento, le diverse tonalità del colore, l’alternanza di un edificio e di muri di cinta, provvedono ad evitare che l’unità diventi uniformità e conferiscono ricchezza espressiva all’ambiente….

In tale ottica particolare valenza assumono i motivi decorativi apparentemente minori: l’intaglio di una parete lignea, la scultura di un frutto su una palizzata, il riferimento ai senti e alle tradizioni culturali della zona. E sono proprio questi dettagli a dare significato e sapore all’architettura spontanea. (Tratto da E. Pascolo, Guida agli interventi edilizi nei centri rurali 1978). Nel territorio che si estende tra il Colvera e il Muiè, in una fascia esterna ai centri maggiori abitati sono distribuiti le località minori e i loucs, risultato di una colonizzazione profonda dell’area e di un uso molto intenso del territorio (prati-pascoli e bosco), che rimane costante fino al primo dopoguerra.

Nei loucs si viveva e si lavorava nel periodo primaverile-estivo da maggio a settembre; composti da abitazione privata, stalla-fienile e appezzamento circostante, rappresentano un elemento comune a tutto il paesaggio, ora testimoniati dalla miriade di fabbricati invasi dal bosco.

La storia del caseificio

LA COSTITUZIONE

Dopo una serie di fervidi incontri promossi dal parroco don Tranquillo Miniutti su richiesta di alcuni dei principali capifamiglia, presso la sede della Società Operaia di Poffabro, il giorno 24 ottobre 1932 si costituisce la “Latteria Sociale di Poffabro” a cui prendono parte gli abitanti delle località di Poffabro, Casasola, Val di Frina, Colvere, Pian delle Merie e Borgo Rioni.
L’articolo 2 dello Statuto sociale definisce tra le finalità della nuova società: la razionale lavorazione del latte prodotto nelle stalle dei soci, ad eccezione del latte di capra, eccedente al consumo famigliare, ed all’allevamento del bestiame; la restituzione in natura a ciascun socio dei prodotti ricavati dalla lavorazione del proprio latte ed eventualmente la vendita per conto dei soci di quella parte di prodotto esuberante ai loro bisogni…
La latteria annovera soci sostenitori, coloro che hanno fornito manodopera e sostegno per la fabbricazione dell’immobile ma non conferiscono latte, soci portatori, coloro che hanno acquistato la quota sociale (del valore iniziale di lire 100) e portano il latte, semplici portatori, coloro che, o per diffidenza verso l’istituzione o per difficoltà economiche, non sono soci del caseificio, ma conferiscono in latteria e ne godono dei benefici.
Nonostante una certa diffidenza ancora presente presso una parte della popolazione, il Caseificio di Poffabro-Casasola viene inaugurato domenica 9 aprile 1933, con 70 soci iscritti e 63 portatori iniziali che divennero 114 alla fine del 1933. Nella realizzazione del fabbricato si impegnarono in prima persona tutti i soci o per la semplice manodopera, o per la fornitura di materiali da costruzione ed il trasporto di merce, o per forniture e commissioni varie all’inizio dei lavori. Per le spese di realizzazione e avvio del caseificio venne chiesto un prestito di lire 40.000 alla Cassa di Risparmio di Udine, estinto nel 1945; mentre i macchinari vennero acquistati presso la Federazione Agricola di Udine.

IL TRASPORTO DALLE BORGATE

Svolto all’inizio direttamente dal casaro con un camioncino-furgone acquistato dalla stessa latteria, fu ben presto affidato, come servizio a pagamento, a privati che si impegnarono, con propri mezzi, a prelevare il latte e a consegnarlo al casaro due volte al dì, mattina e sera, sulla base di un preciso contratto con la Latteria.

IL CASARO

Al casaro è affidata la direzione di tutte le operazioni della latteria: si occupa della lavorazione dei prodotti, curandone la buona stagionatura e conservazione, mantiene i locali, le macchine e gli attrezzi nel massimo ordine e con la più scrupolosa pulizia, pesa il latte al momento del conferimento e distribuisce i prodotti ai soci.
Mario Zuculìn racconta che il casaro iniziava il lavoro alle 6.00 del mattino: accendeva il fuoco, riscaldava l’acqua, portava in magazzino le forme del giorno prima e lavava le tele. Alle 7.00 iniziava la consegna del latte da parte dei soci… alla sera in inverno il ricevimento si teneva dalle 17.30 alle 18.30, in estate dalle 18.30 alle 19.30. Nella sua attività era sempre assistito da due donne.

LA GIORNATA DI LAVORAZIONE

A seconda del quantitativo portato, i soci lavoravano a turno il latte. Nella giornata di lavorazione il socio doveva fornire la manodopera ed il quantitativo di legname indispensabile, doveva inoltre pagare una tassa di lavorazione che veniva definita dalla stessa assemblea.
Nel giorno di San Biagio (3 febbraio) la lavorazione era destinata alla parrocchia mentre un lunedì al mese il ricavato dalla vendita del formaggio prodotto veniva devoluto alla chiesa per la celebrazione di una messa in suffragio delle anime.

IL FASCISMO E LA GUERRA (ANNI ’30-’45)

Anche la Latteria è soggetta alle norme restrittive del periodo fascista che imponevano i prezzi di latte, formaggio e burro. Attraverso l’Ufficio Controllo Formaggi si sovrintendeva alla regolare distribuzione dei prodotti ai soci con il relativo deposito presso il Magazzino dell’ammasso di Maniago. Dal settembre 1943 al maggio 1946, sia per lo scarso apporto di materia prima (solo 2 ettolitri di latte al giorno) sia per non consegnare i prodotti al magazzino dell’ammasso la latteria venne ufficialmente chiusa.

ANNI ’50 E ‘60

Notevole è l’aumento della produzione a partire dal 1950 quando la media giornaliera del latte lavorato si attesta sui 10 ettolitri, con punte anche di 13 quintali per una produzione di 13-14 forme del peso di 6-8 Kg. La latteria conosce una notevole produzione ed il numero di soci arriva a 128 nel 1957. Nel 1963 risultano iscritti soltanto 72 soci e la quantità di latte diminuisce sempre più come testimonia anche l’aumento continuo della tassa di lavorazione. Il casaro Mario Zuculin racconta che negli anni 1963 – ‘64, in inverno, proprio per la mancanza di latte e per risparmiare sulle spese generali di gestione, la lavorazione veniva fatta a giorni alterni, mentre l’ultimo casaro si divideva con la latteria di Frisanco. Quando nella seconda metà degli anni ’60, il Caseificio di Poffabro venne chiuso, chi possedeva ancora vacche portava il latte alle vicine latterie di Navarons o Maniago.

LA PRODUZIONE

I dati sulla produzione sono stati tratti dai registri di portata del latte e dai libri di lavorazione anche se in entrambi i casi i documenti risultano lacunosi. Si riferiscono ad un periodo compreso tra il 1933 e il 1963. In latteria vennero lavorati complessivamente 68.740 ettolitri di latte per una produzione di 6.030 quintali di formaggio e 885 quintali di burro.

In Mont

È la parola comune a tutti i paesi del Parco, per indicare l’attività malghiva che si svolgeva nel periodo estivo, in pascoli di media ed alta quota ( 1000 – 2000 metri). Ogni famiglia possedeva del bestiame, da uno o qualche decina di capi. Fin da tempi lontani si è praticato l’alpeggio, per poter sfruttare al massimo il territorio: andare “in mont” significava usufruire di una parte di territorio che altrimenti sarebbe stato inutilizzato e allo stesso tempo permetteva di provvedere al foraggio per la brutta stagione.
Oggi sono pochissime le malghe monticate, dopo la guerra lentamente l’attività è andata morendo, in seguito al rapido e continuo processo di industrializzazione che ha portato all’abbandono dell’allevamento del bestiame.
Il Parco pone attenzione al recupero delle attività del passato ed in particolare a quella malghiva, fonte di guadagno per la gente di montagna ma anche esempio di come l’uomo viveva in armonia con la natura. Le casere, ristrutturate rispettando l’architettura spontanea ma con servizi moderni, sono una speranza che l’antico mestiere del malgaro non scompaia dalle nostre valli.

SITUAZIONE MALGHE

1903-‘11
Primo censimento a cura di Ionizzo e Marchettano per conto della Cattedra Ambulante di Agricoltura dell’Associazione Agraria Friulana: 267 le malghe registrate di cui 169 in Carnia, 45 in Canal del Ferro, 53 nei distretti di Maniago e Spilimbergo.

1915
In seguito al primo conflitto mondiale la gran parte delle 70 malghe lesionate o distrutte non viene ripristinata.

1938
L’indagine di Gortani, sullo spopolamento della montagna friulana, indica in 261 le malghe presenti: 164 in Carnia, 44 in Canal del Ferro, 13 in Val Canale e 40 nelle Prealpi Carniche. La prossimità del numero a quello di inizio secolo nasconde in realtà “una gravissima crisi, che si ripercuote sinistramente su tutta l’economia della zona”.

1940
Nel solo Friuli occidentale, alla vigilia della seconda guerra mondiale, sono attive 131 malghe, comunali e private.

1985
68 sono gli alpeggi attivi in Carnia, 17 nel Canal del Ferro e 6 nella Val Canale. Nel Friuli occidentale 28 le malghe monticate.

1998
104 gli alpeggi dell’intero territorio regionale.

LA GESTIONE DEGLI ALPEGGI

Dal punto di vista giuridico-amministrativo le malghe del territorio del Parco sono di proprietà comunale. La malga viene affittata, tramite una gara d’appalto condotta con il metodo della “candela vergine”, al miglior offerente, normalmente per un periodo di nove anni.
Nel fornese la gestione è affidata a cooperative di allevatori.
Nell’avviso d’asta sono indicate le casere da monticare, il luogo, la data della gara ed il prezzo base da offrire.
Il Capitolato d’appalto regola il rapporto tra il malghese, il Comune e il proprietario del bestiame, indica diritti e doveri del malgaro nel rispetto delle norme forestali vigenti.
Il locatario – malghese deve operare per il mantenimento del territorio della malga attraverso l’estirpazione delle erbacce e lo spietramento del pascolo, provvede, a fine stagione, allo spargimento del letame. Cura la manutenzione dei fabbricati che costituiscono la malga. Prima dell’alpeggio si preoccupa del ripristino dei sentieri di accesso, sistemando i punti più impervi e pericolosi.
Il carico di bestiame della malga varia in rapporto alla grandezza del pascolo. Solitamente da 30 a 50 capi. Oltre ai bovini da latte ci sono la sterpa, la capra, la pecora e i maiali. Il numero si raggiungeva calcolando il valore delle bestie: due manze o quattro vitelli o dieci capre equivalevano a una mucca.
Nel fornese era tipico l’allevamento ovino, la capra la si ritrova presente fino all’inizio del Novecento e poi, forse anche in seguito alla legislazione che regolamentava il pascolo caprino, si ridusse a pochi capi. Attraverso il Giaf raggiungevano Val Menon, Val de Brica e per Val di Suola tornavano nella loro valle.
Le date per la pesatura del latte alla presenza dei proprietari del bestiame sono fissate in modo tale da determinare la parte dei prodotti spettanti in base alla quantità di latte: il giorno di San Pietro (29 giugno) e il 25 o 26 luglio. Queste pesature consentivano di fare una media della produzione complessiva: una infatti avveniva quando la vacca aveva una grande produzione di latte e l’altra quando il latte andava scemando poiché le mucche erano stagionate per il parto autunnale.
Una quantità di prodotti spettava al prete e alla fabbriceria da consegnare entro il 24 luglio, rispettando di anno in anno il turno delle casere.
Il periodo di monticazione era fissato da un’antica consuetudine: si saliva “in mont” il 7 giugno e si rientrava il 7 settembre.
Mentre il rientro è rispettato in tutti i paesi, la partenza era legata anche alle condizioni ambientali. A Cimolais, in Feròn, si saliva “in mont” il 13 giugno, nel fornese il 29 giugno, poiché le malghe erano ubicate ad una quota che oscillava tra i 1600 e i 1700 metri e c’era l’usanza di trasferire il bestiame nelle stalle che si trovavano a metà strada tra il paese e la malga.
Le malghe erano turnarie, una era più bassa e una più alta. In un primo periodo si sfruttava il pascolo basso (1000 – 1400 – 1500 m), per poi spostarsi anche con l’attrezzatura in quella più alta (1700 – 1800 m) e quindi ritornare nell’ultimo periodo alla prima. Questo consentiva di sfruttare comodamente un territorio più vasto e soprattutto di seguire la maturazione del foraggio.

TIPOLOGIA E ASPETTI TECNICI

Il termine malga indica un terreno di montagna utilizzato esclusivamente per il pascolo estivo, che presenta costruzioni proprie per l’esercizio dell’azienda.
Ubicazione e approvvigionamento d’acqua.
Si aveva cura di scegliere il luogo più sicuro, più ricco d’erba e più soleggiato, nei pressi dei corsi d’acqua, elemento di vitale importanza soprattutto per la bestia.
Mediante un sistema di tronchi di larice incavati l’acqua veniva condotta davanti alla casera e raccolta in un “laip” (tronco incavato). Vi erano inoltre le lame, ossia avvallamenti naturali (o realizzati dall’uomo) del terreno, battuti e impermeabilizzati con argilla per l’approvvigionamento dell’acqua piovana.
In Borgà, malga ertana priva d’acqua, si trasportava con la slitta la neve perenne degli anfratti nei pressi dei “Libri di San Daniele” e, in apposite vasche adiacenti alla casera, si attendeva lo scioglimento.

ACCESSI

La malga era servita da una rete di sentieri che ne garantivano l’attività:
Sentieri principali, sicuri per le bestie, talora con muretto di protezione (come in Col d’Aniei);
Sentieri secondari, ad uso esclusivo del pastore, più veloce e ripido;
Sentieri di collegamento tra una malga e l’altra e tra le zone dello stesso comparto malghivo

MATERIALI D’USO

I muri erano realizzati in pietra locale, legata con calce prodotta nelle fornaci realizzate nei pressi della casera.
A Erto le casere erano realizzate in muratura a secco, con pietre squadrate a mano, mentre le schegge ottenute facevano da legante, riempiendo gli interstizi.
Piccole feritoie costituivano le finestre. Il tetto era costituito da scandole, assi in legno di larice lavorate sul posto (più recentemente da lamiera).
Solo in Andreis, la copertura era diversa: si utilizzava la festuca, pianta della famiglia delle graminacee che cresceva spontanea sui pascoli e che opportunamente battuta ed affastellata, garantiva il tetto anche per cento anni.
Le prime casere erano costituite da più locali separati: in uno si viveva e si lavorava il latte (casera) e nell’altro si conservavano i prodotti (caserino). Si ricorda a Cimolais che c’era un terzo piccolo cassonetto dove si centrifugava la panna. Queste costruzioni erano casoni in tronchi di legno, incastrati con chiodi sempre di legno. Poco distante c’era la tettoia ad un solo piovente, ricovero per le bestie da latte, mentre le manze erano lasciate libere o rinchiuse in un recinto (la mandra). Per le pecore si usava anche un recinto mobile che veniva spostato giornalmente in modo da distribuire razionalmente il concime.
Le strutture che ritroviamo oggi, risalgono agli anni venti del ‘900 e presentano caratteristiche comuni. La casera è composta da un unico edificio, diviso in più locali.
In quello più spazioso si viveva, si lavorava il latte, si trascorrevano i momenti liberi, si cuoceva il magro pasto con l’immancabile polenta. Due scalini in pietra ti conducono nel casel, il locale più fresco e ben areato dove trovavano posto i prodotti da conservare e si sistemavano gli attrezzi.
Una scala in legno permette di accedere al piano superiore, situato sopra al casel. Quattro tavole in legno costituiscono il pavimento, mentre il giaciglio è fatto con erica e foglie secche, poste sopra a rami di pino mugo.
Nel fornese ritroviamo una tipologia completamente diversa: grandi stalle che si snodano intorno ad un ampio spazio quadrato.

L’INTERNO DELLA CASERA

L’interno della casera era molto semplice. Il pavimento era costituito dalla terra stessa, non battuta se non dallo scalpiccio dell’uomo, impregnata di siero e dove regnava il fumo. Il semplice arredo era costituito da qualche sgabello in legno. In un angolo predominava la “mussa” (termine comune che indica tutto ciò che porta). Si tratta di un asse girevole, dove veniva appeso il grande paiolo che in questo modo poteva essere tolto e rimesso sul fuoco, a seconda del bisogno, durante il processo di lavorazione del formaggio e della ricotta.
L’illuminazione avveniva tramite il lume a candela o ad olio e petrolio e, andando indietro nel tempo, con “l’alum”, cioè un ramo di conifera. Raramente c’era la necessità di un mezzo d’illuminazione, perché il fuoco riscaldava e rischiarava il locale ma soprattutto perché le giornate erano scandite dalla luce del sole. Al mattino ci si alzava all’alba e ci si coricava presto, dopo una giornata di duro lavoro.

CHI LAVORA IN MALGA

  • Il malghese

Sovrintende all’attività dell’azienda, gestisce i pascoli e le mandrie monticate e assume il personale. Il giorno della partenza si avviava per primo, seguito dagli altri proprietari, ognuno con le proprie bestie o anche quelle di qualche amico. All’arrivo stilava l’elenco, distinguendo il bestiame per famiglia e controllando la marca su ogni collare.
La giornata iniziava di buon ora con la mungitura (operazione lunga e faticosa). Il lavoro era facilitato dalle bestie legate sotto la tettoia. Seduto su uno sgabello a un solo piede, adatto per trovare un giusto equilibrio in terreno sconnesso, il mungitore stringeva le mammelle a pugno, a tenaglia, a pizzicotto a seconda della sua abitudine o alla grandezza delle mammelle. Si occupava della lavorazione del latte, per ottenere formaggio, ricotta e burro.

  • Il pastore

Solitamente erano ragazzini, mandati bel volentieri in “mont” dalla famiglia per avere una bocca in meno da sfamare nei tre mesi estivi. Un paio di scarponi sono testimoni del loro incedere nei pascoli a custodire le bestie ma anche del loro guadagno: era infatti il compenso che ricevevano dopo tre mesi di lavoro.
Partivano al mattino, dopo aver aiutato il mungitore a pulire e a massaggiare le mammelle e, per tutta la giornata, sorvegliavano le bestie nei pascoli scelti giorno per giorno dall’esperto malghese. Questo bambino pastore scacciava la solitudine intagliando fischietti di legno e rompendo le pietre per poi ricomporle: il “puzzle” di sassi.
Un pastore particolare è il “pluovit” (= lavoro per la comunità) a Forni di Sopra. Il suo compito era quello del mantenimento dei pascoli mediante lo spietramento, la pulizia dei sentieri e delle vasche del letame. In genere erano due che svolgevano il lavoro per quattro malghe.

  • La portatrice

Una volta pronti, i prodotti dovevano essere portati a valle. Questo compito era affidato alle portatrici. Unica donna nel mondo maschile della malga, veniva pagata per trasportare le masserizie e i prodotti dal paese alla malga e da malga a malga, essendo turnarie. In salita riusciva a trasportare 40 kg e in discesa anche 50-60 Kg. Veniva infatti pagata in base ai chili trasportati. A volte lavoravano in cambio di latticini o per una monta di buoi. Il loro mezzo di trasporto era la gerla. Il burro solitamente era riparato dal sole col farfaraccio nel fornese o col pino mugo in Valcellina.

  • Il collare

Elemento comune a tutti i paesi del Parco, prima di partire, ogni proprietario di bestiame aveva cura di appenderlo al collo della bestia. Appeso ad esso il campanaccio risuonava con l’incedere della bestia e richiamava la gente del paese. Nei pascoli era importante quel suono perché avvertiva il pastore dove cercare le bestie che si erano allontanate.
I campanacci da pascolo erano più piccoli e più semplici, meno vistosi.
I campanacci da viaggio erano invece grandi, importanti, ne ritroviamo anche tre su uno stesso collare ed erano appesi alle mucche quando partivano per l’alpeggio e quando rientravano.
Soprattutto il ritorno era festa grande. La mucca più bella aveva l’onore di portare il campanaccio vistoso, le sue corna erano adornate di fiori. Il giorno della Madonna, l’8 settembre, si celebrava la festa del pastore: una messa, un pranzo e ad ognuno il dovuto compenso.

  • Caratteristiche e tecniche

Vi erano collari molto semplici, solo ad incastro, per le capre. Altri come quelli di Andreis decorati a intaglio con motivi floreali o geometrici. I collari sono l’espressione della creatività dell’uomo del tempo passato. C’erano abili artigiani del legno che li vendevano ma quasi ogni malgaro sapeva intagliarli e questo lavoro lo faceva durante l’inverno, in casa, ma anche in malga, nel tempo libero.
Si potevano usare vari tipi di legno (larice, faggio, pino mugo) ma quello più adatto e, per tradizione usato, era il maggiociondolo, un legno dolce e nello stesso tempo resistente.
Lo si poteva tagliare in qualsiasi stagione purchè con la luna calante e scegliere il tronco già in natura leggermente curvato, con un diametro di 8 – 10 cm e l’altezza di 1,20 m. Importante era poi tagliarlo dalla ceppaia perché lungo il fusto il legno si spezza più facilmente.
Con l’acetta si squadrava e si sgrezzava, lasciando alle due estremità e al centro uno spessore maggiore. In una estremità s’intagliava il maschio e nell’altra un foro a sua misura. Per asportare il legno interno si praticava un forellino. Con un ferro “al fer” da dolè si rifiniva lisciando le parti ruvide.
Per incurvarlo lo si immergeva nel siero bollente, rimasto dopo la lavorazione del latte e lo si piegava pin pian, premendolo contro il ginocchio. Con abilità e fantasia si decorava con motivi floreali o geometrici, incidendo col fuoco le proprie iniziali, come segno di riconoscimento. Si praticavano gli ultimi fori per appendere il campanaccio e per infilare la piccola chiave che assicurava una perfetta chiusura.

Le malghe di Pala Barzana

Situate lungo il versante meridionale del Monte Raut, di proprietà dei Conti Martinengo di Maniago, vennero costruite nel 1929-’30, con una superficie a pascolo di circa 200 ettari.

Monticate con manze o bestie da parto, muli, ovini e caprini, sono costituite da due strutture: la malga bassa, ora ristrutturata, situata a quota 950 metri e la malga alta, in stato di rudere, posta a quota 1120 metri. Un acquedotto attinge al rugo del Martelin e porta al deposito-cisterna che si trova tra le due malghe.

La monticazione, che raggiungeva a pieno regime un carico complessivo di 120 bovini e 200 ovini, avveniva, ad inizio stagione, nella località stavoli Pecòl, a quota 750 metri. A fine giugno, il bestiame si spostava alla malga bassa dove ne rimaneva la metà, mentre l’altra veniva trasferita, da fine luglio a settembre, alla malga alta.

In questa malga non troviamo la casera vera e propria, per la lavorazione del latte, in quanto l’erba dei pascoli (prevalentemente graminacee), dura ed esposta tutto il giorno al sole, non è adatta per l’alimentazione dei bovini da latte, ma solo per quelli da carne.